Esquilino

I Sepolcri di via Statilia

Nel 1916, durante i lavori per l'allargamento di via degli Statili in corrispondenza dell'incrocio con via di S. Croce in Gerusalemme, furono riportati alla luce alcuni edifici funerari che per secoli erano stati protetti al disotto di una collinetta, inglobata nell'Ottocento dal muro di cinta di Villa Wolkonsky. Le strutture, cinque distinti edifici funerari costruiti l'uno accanto all'altro lungo il limite della via Caelemontana, erano ben visibili e facilmente accessibili dalla strada: così come oggi le facciate dei sepolcri sono allineate alla via Statilia, lo erano in origine all'antica via che seguiva in questo tratto il percorso dell'asse stradale attuale, nota con il nome di via Caelemontana, la strada che dal Celio raggiungeva la zona di Porta Maggiore.

Il primo sepolcro da sinistra rappresenta la struttura meglio conservata: a pianta quadrangolare, è costruito in blocchi di tufo e sulla facciata, al disopra della porta di ingresso conserva l'iscrizione relativa ai proprietari, incisa semplicemente sui blocchi del muro e incorniciata da due scudi rotondi, anch'essi ricavati sugli stessi blocchi:

"P(ublius) QUINCTIUS T(iti) L(ibertus) LIBR(arius) QUINCTIA T(iti) L(iberta) UXOR QUINCTIA P(ubli) L(iberta) AGATEA LIBERTA CONCUBINA SEPULCR(um) HEREDES NE SEQUANTUR"

"Publio Quinzio, liberto di Tito, Libraio Quinzia, liberta di Tito, moglie (di Publio) Quinzia Agatea, liberta di Publio, concubina (di Publio) Gli eredi non cedano il sepolcro"

L'iscrizione racconta la particolare vicenda familiare di Publio Quinzio, liberto, ovvero uno schaivo liberato dal suo padrone, di professione libraio, e di sua moglie Quinzia, anch'essa una ex schiava liberata dallo stesso personaggio. Nel sepolcro, come indica l'iscrizione, fu seppellita anche Quinzia Agatea, una ex schiava di Quinzio poi da lui liberata, divenuta sua compagna alla morte della moglie: il titolo di concubina, contrapposto a quello di uxor, moglie, indica che questo secondo legame non venne sancito dal matrimonio. La parola concubina, infatti, è stata significativamente aggiunta in un secondo momento, con tutta probabilità quando, succesivamente alla morte della moglie legittima, i rapporti fra Quinzio e la sua liberta mutarono: se questa interpretazione fosse valida, ciò significherebbe che il sepolcro fu costruito quando ancora Quinzia era vivente ed Agatea era una ex schiava, ora liberta, che viveva in ottimi rapporti con Publio Quinzio e sua moglie, al punto da decidere di condividere con loro l'ultima dimora.
L'ultima frase, Sepulcrum heredes ne sequantur, spesso presente nei monumenti funerari, indica che il sepolcro non era destinato ad essere utilizzato da altre persone dopo la morte dei primi proprietari: cosa poi non accaduta, perchè le fosse, formae, scavate nel banco tufaceo per le prime deposizioni furono distrutte da altre più tarde, ed in seguito nello stesso sepolcro furono deposte anche alcune sepolture ad incinerazione.
Il secondo sepolcro, a destra di quello dei Quinzi, è definito "sepolcro gemino", perchè alle spalle della facciata, concepita in maniera unitaria, sono presenti due celle sepolcrali, cui si accede da ingressi distinti. In corrispondenza di ognuna delle celle, due rilievi rappresentano i volti dei proprietari del sepolcro: a sinistra una donna velata e due fanciulli, a destra due donne, una delle quali con una particolare acconciatura. Le iscrizioni, incise anche in questo caso sui blocchi della facciata, permettono di individuare i defunti come liberti di tre famiglie: i Clodii, i Marci, gli Annii.

Il terzo monumento funerario, ancora a sinistra del precedente, apparteneva a A(ulus) Caesonius A.f. Paetus e ai suoi liberti, Philemos e Thelgennia Philumina, come indica una iscrizione su un blocco in travertino sulla facciata. Ad uno sguardo attento, è possibile rendersi conto che i Caesonii non furono in realtà i primi proprietari del sepolcro, ma inglobarono in una camera funeraria più ampia un più antico monumento "ad ara", caratterizzato da un basamento a due filari di blocchi su cui si impostava un dado parallelepipedo sagomato che imitava la sagoma di un altare.
I sepolcri furono realizzati fra la fine del II sec.a.C. e la prima metà del I sec. a. C., ma al loro interno le deposizioni continuarono per quasi 150 anni, fino alla metà del I sec. d.C. In questo lungo periodo cambia il costume funerario, che passa dall'inumazione, attestata dalla prima fase del sepolcro dei Quinzi, all'incinerazione, nettamente prevalente nell'ultima fase in cui i sepolcri vengono utilizzati. Nello stesso modo, si evolve lo stile delle epigrafi, dalle più antiche, incise direttamente sui blocchi di tufo e prive di cornice, alla grafia più netta e precisa dell'iscrizione dei Caesonii, disposta in maniera perfettamente simmetrica su un blocco di travertino, materiale che risalta rispetto agli altri blocchi di tufo della facciata.